da Il Sole 24 Ore
La Cassazione sottolinea la componente morale del danno non patrimoniale
Il vero danno, nella perdita del rapporto parentale, è la sofferenza, non la relazione. È il dolore, non la vita, che cambia, se la vita è destinata, sì, a cambiare, ma, in qualche modo, sopravvivendo a se stessi nel mondo». Usa quasi una licenza poetica la Terza sezione civile della Cassazione, nel chiudere l’ordinanza n. 26301 del 29 settembre con cui ha fornito un ulteriore importante contributo alla definizione del danno non patrimoniale da perdita del rapporto parentale.
Tale pronuncia tratta il danno subìto dai genitori per la morte di un feto, avvenuta nel grembo della madre alla trentunesima settimana di gestazione, a causa di un errore dei medici intervenuti, che non hanno tempestivamente eseguito un parto cesareo, presumibilmente salvifico. La Corte interviene precisando che quel danno, impropriamente definito nel giudizio di merito come «perdita del frutto del concepimento», altro non è (specie dopo l’affermazione del fondamento costituzionale della tutela del concepito) che un vero e proprio danno da perdita del rapporto parentale, come tale meritevole di esser trattato e risarcito.
Sul punto la stessa Cassazione si era già pronunciata, qualificando sì il danno in tali termini, ma avendo cura di rilevare come nel caso di «feto nato morto» sia ipotizzabile che il pregiudizio sia meno grave. In questo caso, infatti, a venir meno è solo una relazione affettiva potenziale e cioè quella che avrebbe potuto instaurarsi nel rapporto genitore figlio, ma che è mancata per effetto del decesso anteriore alla nascita.
In passato, per il feto, a fronte di una meno intensa relazione affettiva, la Cassazione ha confermato la bontà della liquidazione a favore dei (potenziali) genitori di un importo pari alla «metà del minimo riconoscibile sulla base della Tabella di Milano, assunta quale parametro di riferimento» (sentenze 22859/2020 e 12717/2015).
Peraltro, il 6 ottobre la stessa Terza sezione ha depositato l’ordinanza 27130, che puntualizza come la perdita del feto sia diversa dal caso di un bambino nato vivo ma morto dopo pochi minuti. In quest’ultimo caso, il danno parentale è più “pieno”.
Con la sentenza 26301 la Corte non entra sul tema della misura della liquidazione e non conferma né smentisce tale orientamento. Ma coglie l’occasione per una più generale – e fortissima – (ri)affermazione della natura e della consistenza del danno da perdita del rapporto parentale, nella sua duplice dimensione morfologica.
La perdita di un congiunto, come del resto ogni danno non patrimoniale alla persona, può infatti dar luogo, secondo la Cassazione, tanto ad una sofferenza interiore, che rileva sul piano del danno morale soggettivo quanto ad un altro tipo di pregiudizio (dinamico relazionale) derivante dalla modifica, in peggio, del proprio stile di vita Ma quando si parla di danno da perdita del rapporto parentale, a differenza dei casi di compromissione della relazione con il congiunto a seguito di una sua grave lesione, quel che davvero rileva è proprio la sofferenza interiore patita per la scomparsa del proprio caro.
E anche, e forse soprattutto, nel caso di perdita del feto, il danno è principalmente di carattere morale, come nella vicenda trattata dalla Cassazione, in cui «il panico e gli incubi» sofferti dalla madre dopo l’evento esprimono la misura degli strascichi che quel lutto ha lasciato nell’animo della stessa.
Una tale rotonda enfatizzazione della componente morale del danno non patrimoniale impone, peraltro, una seria riflessione sulla necessità di adeguatamente distinguere quella componente dal cosiddetto danno psichico. Il rischio di una facile duplicazione o mistificazione è forte, soprattutto a fronte delle recenti tendenze a chiedere, nelle corti, il risarcimento di danni psichici in aggiunta al danno morale o in luogo dello stesso.
Merita di esser ricordata la nitida presa di posizione con cui la Cassazione ha affrontato il tema (sentenza 18056/2019) chiarendo che il danno psichico è un vero e proprio danno alla salute che va accertato con criteri medico-legali e valutato in punti percentuali. E raccomandando di non confonderlo col danno morale, evitando di ritenere che la stima della sofferenza causata dalla morte d’un congiunto possa ristorare di per sé anche l’eventuale malattia psichica patita dal superstite; ma anche senza dar corso a troppo facili e frettolose “psichiatrizzazioni” d’ogni moto dell’animo ed evitando di concludere che qualsiasi turbamento costituisca per ciò solo un danno alla salute.
Occorre rigore, dunque, per risarcire il giusto e dar adeguato peso al racconto di emozioni e malesseri che richiedono di essere accuratamente obiettivati e correttamente qualificati.